“The weather”… Inutile dirlo. Questa è la risposta, scontata, di qualsiasi connazionale alla solita, scontata, domanda: “ma cosa non ti piace di Londra? Cosa proprio non sopporti?”. Certo, con qualche estemporanea divagazione culinaria a cura dei nostalgici della cucina mediterranea. Oppure qualche sbuffo all’aroma arabica di chi passa in rassegna Starbucks, Caffè Nero, Costa Coffee e quant’altro, alla disperata ricerca di qualcosa che possa lontanamente assomigliare ad un Espresso, salvo rimanere regolarmente delusi. Ok, in questo caso devo ammettere che la delusione ha pesantemente colpito anche me.

La mia esperienza a Londra

La mia esperienza a Londra

Siccome è  sempre utile cercare di andare oltre gli stereotipi superficiali, più o meno divertenti e che talvolta ci contraddistinguono, non è difficile immaginare che siano ben altre le motivazioni e le difficoltà contro cui si può sbattere affrontando una nuova avventura di vita, ricominciando, ricostruendo se stessi, in una città come Londra. Anzi, “a Londra”, perché non esistono città “come” Londra.

 

Proprio per la sua unicità e la sua atmosfera (certo, anche per l’inglese, che non fa mai male) alla fine la mia scelta è ricaduta sulla capitale britannica. Un mese di ferie a Londra, una pausa ricercata dalla quotidianità del lavoro e della cosiddetta “vita di tutti i giorni”, un mese alla scoperta, o alla riscoperta, di una città che da sempre attira l’attenzione di milioni di persone. Ma anche di un’altra città, quella che intimamente ognuno costruisce dentro di sé: ponti di emozioni che legano strade lastricate di convinzioni, quartieri di speranze, villaggi di motivazioni, periferie inquinate dai dubbi, centri storici rimessi a nuovo per apparire sgargianti. Si, spesso sgargianti solo dall’esterno, però. Ed un’idea, una domanda, quella che da anni periodicamente si ripropone: ma io che ci faccio ancora qui?

Perché porsi continuamente questa domanda? In fondo cosa mi manca qui? Non sono un soldato dell’esercito dei precari, non sono un disoccupato, cassaintegrato… Niente di tutto questo. E non sono nemmeno un “cervello in fuga”, al massimo posso essere un “anima in fuga”. Sono uno di quelli che in questo Paese definiremmo “fortunati”, trentenne con un posto fisso e discrete possibilità di carriera, regalate da nessuno, per dire la verità. Forse sfacciatamente ingrato verso un destino, a cui non riconosco l’esistenza, per riuscire a sentirmi davvero così “fortunato”, al punto da avvertire ormai come una gabbia ciò che molti considerano un miraggio. Richiamato dal gusto della scoperta, del cammino, dell’ignoto, da quella scarica di adrenalina che solo rimetterti completamente in gioco in un contesto sconosciuto ti può regalare. E maledettamente frenato dalla convinzione comune che qui, oggi, mollare un “lavoro sicuro” per l’ignoto equivale alla decapitazione, professionalmente parlando. Convinzione comune che, a torto o a ragione, funziona come quelle geniali campagne di marketing, talmente ben pensate che finiscono per diventare le tue stesse convinzioni.

Si parte per fuggire o si parte per scoprire? Credo per entrambe le cose, e forse si fugge dall’impossibilità di scoprire. Ho sempre detto che me ne sarei voluto andare per cercare, non per scappare da qualcosa. Ma forse non è del tutto vero. Inizio a diventare troppo insofferente ad alcuni modi di pensare e comportamenti da cui mi sento sempre più circondato, accerchiato. Inizio ad essere stufo di sentire persone che continuano a lamentarsi e non muovono un dito per cambiare. Faccio fatica a continuare a dialogare con chi predica il cambiamento, perché le cose così non vanno, basta che questo cambiamento stia fuori dal loro orticello e non intacchi i privilegi acquisiti. Boati e anatemi contro la classe politica, senza accorgersi che questa è l’esatto specchio della nostra società, che, nel nostro piccolo, siamo noi a determinare. Sono stanco di conoscere o avere a che fare con persone per cui la cosa che più conta è l’apparire, che escono la mattina dalle loro case con indosso la loro bella maschera e che quando riesci a intravedere cosa c’è sotto, trovi il nulla. Sono annoiato da chi continua ad agire pensando sempre al giudizio altrui, senza mai sviluppare un sano ed autentico senso critico verso sé stessi. Sono deluso dalla mentalità dominante per cui chi frega l’altro è sempre il vincitore. Ne ho le scatole piene di un paese dove non si può mai cambiare nulla, dove tutti criticano e nessuno propone, dove tutti sembriamo anestetizzati, disposti ad accettare ormai qualsiasi cosa, dove la colpa è sempre dell’altro e pochi sanno assumersi le responsabilità. “Guarda che è uguale ovunque, cosa credi? Cosa pensi di trovare fuori?” è l’osservazione più comune che mi sento fare. Si, può essere, forse il mio è solo un miraggio. Anche se l’idea che mi sono fatto, non solo grazie alla mia esperienza a Londra, non è esattamente questa e poi, come al solito, nelle cose io ci devo ficcare il naso per vederle, capirle e crederle. Io amo l’Italia, ma è con gli italiani e con la nostra mentalità che credo di avere qualche problema di convivenza, con cui troppo spesso mi scontro.

E così, col fardello di questi pensieri (fossero solo questi), affronto questo “mese sabbatico”, un viaggio attraverso luoghi, persone, esperienze. Nella speranza di riuscire a fare un po’ di chiarezza dentro e fuori di me, per capire se sto percorrendo la strada giusta, avanzando con fare tipico di chi, sapendo già di essersi perso, ha la mano in tasca pronta a sfoderare la cartina. Opss, lo smartphone, volevo dire.