Le università italiane sono vecchie rispetto a quelle straniere…lo so, me lo dovevo aspettare, ma diciamo che sono rimasta shockata ugualmente, nonostante me lo immaginassi.

Pochi giorni fa ho fatto un salto in Facoltà. Quella di Lettere e Filosofia. Quella in cui ho vissuto uno dei momenti più emozionanti della mia vita (anzi … due lauree, quindi due momenti). Non passeggiavo per l’Ateneo da circa un anno e mezzo. Tutto è rimasto esattamente identico a come l’ho lasciato.  No, che dico! Tutto è rimasto identico a come l’ho trovato sette anni fa, quando decisi di intraprendere il mio percorso accademico.

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La straordinaria novità sembra essere il verbale elettronico! Nonostante questa new entry di alto profilo tecnologico, a detta delle matricole di mia conoscenza le segreterie continuano tuttavia  a funzionare male. Non è questione di avere mezzi più o meno all’avanguardia, credo non sia mai stato questo il reale ostacolo al loro corretto funzionamento … penso piuttosto ad un aspetto culturale controverso che difficilmente potrà mutare nel tempo (e non solo in Sicilia), ovvero la mentalità di alcuni che rimangono incollati al posto fisso mantenendo saldo questo principio: ce l’ho, me lo tengo stretto, poi se lavoro bene o lavoro male, non sono affari miei!

Vogliamo parlare, poi, dell’arte dello scarica barile, che piace tanto alle università italiane?

Pochi mesi fa ho dovuto aiutare uno studente cinese nel disbrigo della pratica per richiedere la borsa di studio. Lui, appena arrivato in città, confuso perché catapultato in un mondo nuovo e profondamente diverso dal proprio, era anche preoccupato al pensiero di dover affrontare un iter burocratico a lui completamente sconosciuto. Chi, al suo posto, non si sarebbe sentito così?

Il disastro delle università italiane

Gli fu fissato un appuntamento per il giorno seguente, lo accompagnai in Ateneo perché ovviamente gli impiegati sconoscono la lingua inglese, unica lingua franca che ci avrebbe permesso di interloquire e capirci. Bene, la responsabile che avrebbe dovuto occuparsi della faccenda non si presentò e lui perse un’intera mattinata di lezioni di italiano (vitali per lui!).

Dove sta il problema? Il ragazzo può sempre ritornare domani.

Certo, chi se ne importa del tempo prezioso che gli è stato rubato!

Le mie furono parole sprecate. Cominciò, quindi, il mio estenuante girovagare per vari uffici dell’Ateneo. La risposta era sempre la stessa: chieda a Tizio. Vado da Tizio: no, deve chiedere a Caio. Vado da Caio: no, guardi, non sono io che mi occupo di queste cose. Dovrebbe parlare con Pinco Pallino.

Quella volta rischiai sul serio di invecchiare in un solo giorno!

Se ripenso alle università americane che contattai quando mi trovavo a Boston, non posso non pensare all’abisso che le allontana alle nostre. Soprattutto in termini di efficienza e qualità dei servizi. Certamente, è il minimo che ci si possa aspettare da università che impongono elevatissime tasse di iscrizione. Beh all’inizio anch’io la pensavo così. Ma credo, invece, che la professionalità e la preparazione del personale debba essere requisito essenziale affinché tutto funzioni bene. Chiamasi utopia!

E’ proprio così, dentro le nostre università si invecchia e quando vai fuori lo percepisci ancora di più. A Boston conobbi una ragazza di 21 anni, ormai prossima alla conclusione dei suoi studi. Parlava tre lingue fluentemente e di fronte a lei un futuro ricco di opportunità e l’imbarazzo della scelta, data anche la sua giovanissima età. E ancora uno dei miei coinquilini, diciassettenne e un’esperienza di tirocinio alla Microsoft alle porte, un genio che ricordo con affetto!

“Dai Ro, non farti prendere dall’ansia, dopotutto ti sei laureata da un anno e mezzo e in questo anno e mezzo hai fatto un sacco di cose, sei stata all’estero, non ti sei fermata un attimo”.

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E’ vero, ho fatto tantissime cose, ho lavorato, mi sono lanciata in esperienze professionali nuove, mi sono concessa due grandi viaggi, la mia vita si è arricchita.

Eppure, quando riguardo quella pergamena, quel “pezzo di carta” come in tanti lo definiscono, sento che manchi ancora qualcosa di concreto.

Ripenso ai tanti “no, non posso venire, devo studiare”, “no, per questa volta andate voi, la prossima settimana ho un esame”, “quest’estate niente vacanze, devo preparare 3 esami”.

Credevo che mettere lo studio tra le mie priorità oltre che tra i miei piaceri, investendovi energie, tempo, dedizione e impegno, sarebbe stato utile dopo, nel momento della ricerca di un’occupazione. Non avrei studiato altro se non le lingue, questa è una delle direzioni che ho sempre seguito con determinazione e costanza. Di contro, pensando (erroneamente) che non avrei saputo fare bene anche altro. E invece, nel frattempo, ho fatto anche altro, scoprendo che sono anche altri i settori in cui potrei spendere se non le mie competenze tecniche, magari le mie soft skills.

Oggi mi scontro con un’amara realtà, quella che mi impedisce di inserirmi nel mio campo di studi, un campo notoriamente saturo, quello delle lauree umanistiche.

Ammetto che in questa cosa mi ci sono molto intestardita … se ho investito anni di studio in questo settore, ma soprattutto se vi ho investito la mia passione, è perché sono sicura sia quello che voglio realmente fare, quello in cui sto bene.

“Chi si accontenta gode” … beh, su questo tema a dir la verità io rimango fedele alla versione di  Ligabue.  Mi accontenterò solo quando mi stancherò di provare e riprovare … e questo momento, per fortuna, non è ancora arrivato!